Il 20 aprile, «N-day»
Pubblico due paragrafi del mio libro “Nutella un mito italiano” pubblicato nel 2004 da Rizzoli per i 50 anni della crema da spalmare più famosa del mondo . Un resoconto dell’Italia negli Anni Sessanta.
E’ nata il 20 aprile 1964 in una mattina fredda e piovosa nell’ultimo giorno dell’Ariete. Un segno zodiacale che, secondo gli astrologi, ha caratteristiche tutte positive: ardore, spirito d’iniziativa, fierezza, audacia, fiducia in se stessi. Ma nello stesso tempo è molto sensibile. E leale. Siamo tutti figli di Nutella, confessiamo, stregati da una dolcezza infinita. Di un mito si può scrivere, difficile spiegarlo. Sono molti gli elementi che hanno contribuito al successo: la ricetta, il marchio – primo esempio di naming (la tecnica per battezzare un prodotto) dal respiro internazionale – perfino il packaging. Grazie anche ad un barattolo originale e sinuoso, il prodotto è vissuto come contenitore di significati positivi e di valenze emozionali.
Sulle pagine di pubblicità dei settimanali dell’epoca la Nutella era presentata, in due confezioni da 110 e 160 lire, come una «delizia da spalmare sul pane». Nell’immagine stampata dai rotocalchi spiccava una fetta di uno sfilatino casereccio, appoggiata su un bicchiere in vetro riempito di crema. Un messaggio rivolto alle mamme, con due obiettivi: far loro dimenticare il «peccato» di gola commesso con l’acquisto, grazie al bicchiere in omaggio da riutilizzare in tavola, e tranquillizzarle sul piano nutrizionale. Con il rito della spalmata – che impediva ai ragazzi di mangiare la cioccolata e buttare il pane – i loro figli si sarebbero nutriti con «le sostanze più sane che ci regala la natura» attraverso una merenda «golosa per ogni età».
Ma come si arrivò al battesimo della Nutella? Fu Michele Ferrero a inventare e a dare le ali ad un prodotto che fin dal 1951 si vendeva in tutta Italia, la Supercrema: una conserva vegetale a base di nocciole che già era la primaa evoluzione del prodotto creato dal padre Pietro. Era un «dolce dei poveri» a basso prezzo al sapor di cioccolato, il «Giandujot», confezionato in pani da tagliare con il coltello: a base di surrogato, d’estate si scioglieva e d’inverno diventava una mattonella rigida, eppure diede la felicità a tanti scugnizzi del Meridione, facendo loro apprezzare il gusto dolce. Fu la Nutella a fare la fortuna di quella famiglia di pasticcieri. Verso la metà degli Anni Sessanta, la Ferrero era già un’industria di primo piano, il più importante gruppo dolciario italiano, con stabilimenti bene avviati in Germania e Francia. Dalla sede centrale di Pino Torinese, sulla collina della capitale subalpina, partivano le direttive per una delle prime multinazionali italiane. Fin da allora la visione era europea, quando i Trattati di Roma erano appena stati siglati e l’integrazione del Mercato Comune doveva ancora partire.
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La Nutella nacque di lunedì, in un uggioso giorno di una primavera che non voleva ancora sbocciare sull’Italia. Nella fabbrica di Alba il reparto per il confezionamento del prodotto nei bicchieri – che arrivavano dalla vetreria De Val Bor di Altare (poi divenuta Covetro), in provincia di Savona – , era più piccolo e con macchine meno veloci di ora. Molte lavorazioni si facevano a mano, salvo le grandi «mammelle meccaniche» che dispensavano il liquido bruno per riempire i contenitori. Più che di pioggia, il 20 aprile 1964 fu un giorno di pesante maltempo: il termometro non superò mai i 12 gradi, nel Nord Italia. Davanti a Marina di Pisa precipitò in mare un «vagone volante» della quarantaseiesima brigata con sei uomini a bordo, mentre sui monti di Sondrio sette uomini furono travolti in un pulmino da una valanga staccatasi dalla Val Malenco.
Roma tributò calorose accoglienze alla regina Ingrid di Danimarca, ospite del presidente della Repubblica Antonio Segni. Il benessere solleticava gli appetiti di chi non aveva alcuna voglia di entrare nelle fabbriche del Nord, che continuavano ad assumere e ad attrarre manodopera dal Meridione. Era più facile entrare con le pistole in pugno in una gioielleria o in una banca. Così quella mattina a Collegno, nella periferia di Torino, una «gang» della malavita locale si esibì in una clamorosa «spaccata»: infrante le vetrine di un elegante negozio con un grosso tubo di ferro, portarono via sei milioni di lire in gioielli, circa 50 mila euro di oggi. Ma il conto tra guardie e ladri pareggiò con una brillante operazione condotta dalle forze dell’ordine: tra Sanremo e Torino fu arrestato uno dei componenti di una banda che pochi giorni prima aveva terrorizzato Milano con una rapina in via Montenapoleone. La Milano del 1964 come la Chicago del 1929, scrissero i giornali: per rompere le vetrine, sette gangster in pieno giorno avevano usato i mitra e poi su quattro potenti auto si erano dileguati con un bottino di cento milioni, pari a 800 mila euro.
Soldi soldi soldi. L’Italia voleva arricchirsi. Non importava come. Non tutti erano stati miracolati dall’Italia del boom. Quel lunedì a Torino si visse uno dei tanti drammi della povertà: il piccolo Vittorio, neonato di undici mesi, moriva di stenti nella culla mentre la famiglia. perseguitata dalla sventura (come scrissero i cronisti dell’epoca). era sfrattata per morosità dal suo piccolo appartamento.
Le case degli italiani più ricchi stavano per essere inondate dagli elettrodomestici. In realtà non erano ancora a prezzi popolari: sarebbero scesi più avanti. Una lavatrice Algor, per cinque chilogrammi di biancheria asciutta, costava la bellezza di 195 mila lire (oltre 1500 euro di oggi), il doppio dello stipendio medio di un operaio. Lavorando un mese in fabbrica era possibile comprare un grande frigorifero da 200 litri a 89 mila lire (700 euro). Mentre soltanto il 23 per cento delle famiglie aveva una lavatrice, la metà aveva già lui, il televisore, rigorosamente in bianco e nero.
Ci si poteva sintonizzare su due soli canali tv: quelli della Rai, televisione di Stato. Il 20 aprile 1964, come sempre, il primo ad accendersi fu il Secondo. Alle ore 13, da Milano veniva diffusa la «Rassegna quotidiana di notizie e curiosità». Poi bisognava aspettare le 17,30 per l’avvio delle trasmissioni sul Programma Nazionale (così si chiama Rai Uno, era l’unico visto in tutta Italia perché i ripetitori per il Secondo Programma non erano ancora completamente diffusi lungo la penisola). Partiva con il segnale orario, seguito dalla «Tv dei ragazzi», quella delle prime merende a pane e Nutella: le gesta di Ivanohe, cavaliere della Tavola Rotonda, le avventure del cane-soldato Rin Tin Tin, i primi cartoni animati. Agli esordi la tv era buonista e pedagogica: tra i suoi compiti c’era anche quello di insegnare l’italiano a chi ancora parlava soltanto dialetto. Divenne famosa la figura del maestro Alberto Manzi, che con lavagna e gessetti, scenette e documentari, alle 18,30 di tutti i giorni incrementava il vocabolario dei telespettatori: «Non è mai troppo tardi» (per imparare, era sottinteso) andò in onda fino al 1968, per otto anni.
Alle 19,15 fu trasmesso il programma «Carnet di musica», dedicato a Bobby Solo, autentica rivelazione del Festival di Sanremo vinto dall’adolescente Gigliola Cinquetti. Ciuffo alla brillantina e sguardo segnato da un rigo di rimmel, Bobby Solo aveva accusato una laringite ed era riuscito a presentare la sua «Una lacrima sul viso» cantando in playback sul palco dell’Ariston. Anche per questa ragione ottenne soltanto il secondo posto nella rassegna canora, pur balzando subito in testa alla hit parade.
Dopo il telegiornale – condotto da annunciatori dal volto rassicurante, come l’indimenticabile Marco Raviart – c’era il famoso «Carosello», la trasmissione di massimo ascolto: un contenitore di sketch pubblicitari ciascuno di tre minuti, in cui i primi due erano dedicati ad una storiella senza alcun legame con il prodotto reclamizzato, seguiti da un «codino» simile ai nostri attuali spot. Aveva un ascolto nel 1963-64 di otto milioni e 200 mila spettatori, e andò in onda per vent’anni, dal 1957 al 1976, tutte le sere alle 20,50. Come ha scritto Enzo Biagi, quelle scenette edulcorate sono state la nostra educazione sentimentale, lo specchio deformato di una realtà fittizia e ottimista.
E’ ancora dolce il ricordo dei tanti personaggi inventati dai pubblicitari. Ernesto Calindri fu identificato con il Cynar. Virna Lisi divenne famosa per un dentifricio, poiché «con quella bocca può dire ciò che vuole». Armando Testa nel 1965 inventò per Lavazza le avventure di Caballero e Carmencita: quel «Bambina, sei già mia, chiudi il gas e vieni via» rimase impresso quanto il recente «più lo mandi giù e più ti tira su». Nutella si inserì in quell’epopea di personaggi prima con una serie di scenette dedicate alle «Grandi feste» nel mondo e poi con i cartoni animati intitolati «Le Memorie di un diplomatico» realizzati da Nino e Toni Pagot, nel 1966.
Era un universo mediatico molto differente da quello attuale: i primi «Caroselli» dedicati alla crema al cioccolato rispondevano ad una logica famigliare e perbenista, senza spigoli e contrasti, tanto simile ad una semplice fetta di pane spalmata. Le «Grandi feste» presentavano in modo documentaristico usi e costumi europei: la festa di Sant’Eligio in Francia, l’arrivo della nuova birra in Austria, il lancio del palo da parte di muscolosi scozzesi in kilt. L’aggancio con il prodotto era un po’ forzato, ma lineare: «In tutti i paesi è festa ogni anno. Ma in tutte le famiglie è festa tutti i giorni, con Nutella. Per la merenda all’aperto, per tutti gli spuntini, per una colazione diversa, una delizia da spalmare sul pane». Si chiudevano i 45 secondi di comunicato con un improbabile bambino che recitava, impacciato: «Brava mamma, che hai scelto Nutella». E la voce fuori campo, mentre il fermo immagine andava su una cartina del Vecchio Continente, scandiva: «Nutella è una specialità Ferrero, la marca apprezzata in tutta Europa».
Le regole di «Carosello», dettate nel 1963, erano rigide: il nome del prodotto reclamizzato non poteva essere pronunciato più di sei volte. Durante il cortometraggio iniziale non si poteva fare alcun riferimento alla ditta che pagava gli spazi. Inoltre, era vietato interrompere dialogo e azione con la pubblicità, che andava inserita soltanto nel «codino» dello sketch. Nonostante quelle restrizioni, i pubblicitari italiani riuscirono a creare personaggi indimenticabili e situazioni coinvolgenti. Il teatrino napoletano con la sigla di Luciano Emmer fu un po’ l’emblema della ricchezza di un paese che stava scoprendo il consumismo.
La sera del 20 aprile, dopo Carosello andò in onda il newsmagazine che ha segnato un epoca, il «Tv7» diretto da Giorgio Vecchietti. Uno dei servizi era dedicato al terzo Oscar assegnato a Federico Fellini per il suo 8 e 1/2. Sul secondo programma, il mitico film del lunedì, l’unico che andava in onda in tutta la settimana: quella sera erano di scena William Powell e Myrna Loy nel Canto dell’uomo ombra, l’ultimo della fortunata serie di sei film hollywoodiani dedicati alla storia inventata da Hammet.
La notizia che portò il 20 aprile 1964 sui libri di storia fu l’annuncio contemporaneo da New York e da Mosca della riduzione dei piani atomici delle due superpotenze. Dopo gli anni della Guerra Fredda, che pure continueranno fino al crollo del Muro di Berlino – nel 1989 – la decisione del presidente americano Lyndon Johnson e del premier sovietico Nikita Kruscev fu salutata dai giornali come «la strada della pace» e come «un importante passo verso la distensione e il disarmo». Per la prima volta nella storia dei rapporti tra Est e Ovest veniva siglato un accordo di tale importanza senza estenuanti trattative bilaterali. Gli Stati Uniti annunciarono che avrebbero ridotto la produzione di uranio del quaranta per cento entro quattro anni, e quella del plutonio del venti per cento, mentre l’Unione Sovietica avrebbe interrotto la costruzione di due grandi reattori atomici e ridotto la produzione dell’uranio 235. Una mossa che portò fortuna soltanto al presidente texano, arrivato alla Casa Bianca da vice di Kennedy, dopo l’attentato del 22 novembre 1963. Fu messo in copertina da «Times» come uomo dell’anno 1964, e a novembre vinse le presidenziali battendo il repubblicano Goldwater. Quanto a Kruscev, dopo aver battuto gli americani mandando un russo per primo nello spazio e aver promosso un decennio di riforme che rinnovarono l’Urss, il 18 ottobre 1964 fu deposto dal Comitato centrale: si era spinto troppo avanti.
Per appronfondire, il sito dedicato all’ultimo libro del 2014, “Mondo Nutella” https://www.claragigipadovani.com/mondo-nutellahttps://www.claragigipadovani.com/mondo-nutella