Annie, Nadia, Luisa. E poi Mirella, Lidia, Mary. In principio erano loro (e alcune lo sono ancora) le regine della cucina italiana, secondo il modello classico della nostra ristorazione tradizionale: una donna ai fornelli, il marito o il compagno in sala. La rivoluzione lanciata alla fine degli Anni Novanta da Gualtiero Marchesi, con tutti i suoi discepoli giunti alla ribalta nel nuovo millennio (Cracco, Oldani, Lopriore, Leeman, Crippa ecc) ha fatto emergere una nuova figura: lo chef-star, protagonista in sala e in cucina. Il cuoco “macho” è diventato un personaggio mediatico e un influencer, con il conseguente oscuramento delle stelle al femminile.
Oggi finalmente la situazione sembra un po’ migliorata, con tante donne chef che hanno saputo affermarsi, grazie a una maggiore attenzione nella società alla parità di genere. Ne abbiamo parlato con tre battagliere interpreti della moderna arte culinaria, che con passione si battono per far valere l’altra metà della cucina italiana, da nord a sud: Antonia Klugmann, del ristorante l’Argine a Vencò (1* Michelin), in Friuli Venezia Giulia, quasi al confine con la Slovenia, la prima a far da giudice nel 2017, per una stagione, nella trasmissione tv Master Chef Italia; Valeria Piccini, di Da Caino a Montemerano, in Toscana, che imparò il mestiere nel 1978 dalla suocera e che dal 1986 ha preso le redini del ristorante di famiglia (con due stelle Michelin) e che si definisce “shef” (da she, lei in inglese); Caterina Ceraudo, in Calabria, che officia al Dattilo (1* Michelin) di Strongoli (Kr) e collabora alla grande tenuta agricola di famiglia, di ben ottanta ettari.
Attualmente in Italia, su 371 locali premiati dalla Guida Rossa 202, i ristoranti stellati con una donna chef sono soltanto 41, pari all’11 per cento. Decisamente pochi, ed è un numero pressoché uguale da almeno dieci anni. Invece nel mondo la situazione sembra andare un po’ meglio: se nel 2011 i “macarons” al femminile premiavano 116 attività, oggi sono saliti a 196 (anche se in realtà sono state editate nuove guide, specie negli Stati Uniti). Naturalmente la Guide Rouge non è l’unico criterio per riconoscere un buon locale dove mangiare, ma è la più antica (fu pubblicata in Francia nel 1900, in Italia nel 1957) ed ha criteri omogenei su scala mondiale (anche se gli ispettori sono da sempre accusati di preferenze francofile).
Ma torniamo a quelle dame citate all’inizio. Annie Feolde all’Enoteca Pinchiorri di Firenze detiene le tre stelle Michelin fin dal 1993 e Nadia Santini – Dal Pescatore di Canneto sull’Oglio (Mn) – dal 1996: entrambe le hanno mantenute, anche se ormai la signora Feolde ha lasciato il campo al “primo chef” Riccardo Monco, mentre Nadia continua a cucinare, sempre più coadiuvata “alla pari” dal figlio Giovanni. Luisa Marelli Valazza del Sorriso di Soriso (No) ha ricevuto la terza stella nel 1998 e ora ne ha conservata una. Ma prima di loro altre lady dei fornelli hanno segnato la storia dell’alta gastronomia italiana, in esercizi ormai chiusi: Mirella Del Nevo Cantarelli (due stelle nella famosa osteria di Samboseto, Pr), Mary Barale del Rododendro di Boves, Cn (1* Michelin dal 1981) e Lidia Alciati di Guido Da Costiglione, At (due stelle dal 1976).
In quegli anni non c’erano contest in televisione, le sfide a colpi di “like” sui social, e invece della ricerca di stupire, si cercava di interpretare al meglio la nostra grande tradizione italiana, facendo stare bene la gente seduta a tavola. Una vocazione all’accoglienza e alla cura familiare che in base al comune sentire dell’epoca – ma guai a ricordarlo oggi ai paladini del politically correct – era una caratteristica quasi naturale della “regina della casa”, e di conseguenza della “locandiera” di osterie e ristoranti di famiglia.
Oggi però le donne chef rivendicano impegno, professionalità, creatività al pari dei colleghi maschi: semmai, si battono per la vera parità allargando gli orizzonti al di fuori della cucina. Lo spiega Antonia Klugmann con molta determinazione, anche perché – sottolinea – non ha ereditato dalla famiglia il suo ristorante, ma si è costruita il successo da sola. «In tutti i settori, trasversalmente – dice la chef triestina – esiste oggi un problema di accesso alle possibilità di carriera delle donne. Personalmente non ho mai riscontrato un maschilismo che mi precludesse delle possibilità. Purtroppo, però, l’occupazione femminile in Italia è bassa in tutti i campi, quindi penso che non sia un problema specifico nella ristorazione, ma una questione sociale che settore per settore vada affrontata declinandola secondo questioni pratiche diverse». Nella brigata di Antonia non ci sono altre donne. Dove bisogna agire, per migliorare la situazione? «Penso che si potrebbe iniziare dall’avvio di politiche di supporto alle donne, nel welfare e nella formazione e supportando l’imprenditoria femminile».
Valeria Piccini invece ha imparato il mestiere nel locale della suocera. Da Caino oggi festeggia i 50 anni di apertura e ha fatto diventare quel piccolo borgo della Maremma, con meno di 500 anime, una delle mete gourmet più amate della Toscana. Perciò Valeria ammette: «Il lavoro è duro, ma la famiglia mi aiuta. Io sono la dimostrazione che, con la passione e l’impegno, si può arrivare… però bisogna sapersi organizzare. E forse da parte dei proprietari c’è diffidenza verso una donna che sceglie questa professione. Spesso si ritiene, sbagliando, che sia un mestiere da uomini, per gli orari e per la fatica che comporta. Non è così. Però è vero che la donna si deve impegnare di più, per riuscire». Ha delle ragazze in brigata? «Due, molto brave: una si occupa della panificazione e della pasticceria, l’altra dei gelati. Questo mi ha permesso di offrire il carretto dei gelati ai miei ospiti, e oggettivamente è un altro tipo di lavoro che cucinare. Alle giovani aspiranti chef voglio dare un consiglio: non è un lavoro da prendere sottogamba. Si deve sempre studiare, imparare le nuove tecniche, aggiornarsi. E anche io continuo a farlo». È più difficile fare il “capo” in cucina, per una donna? «Non credo. L’autorevolezza si conquista. Certo io sono un po’ facilitata, forse, perché sono “nel mio”…»
Anche Caterina Ceraudo lavora “nel suo”, ma si è costruita la carriera di chef con tanto impegno e professionalità. Nel 2017 è la stata la prima “Chef Donna” a ottenere il nuovo premio annuale della Michelin (nel 2021 il riconoscimento è stato assegnato a Isa Mazzocchi del ristorante La Palta di Borgonovo Valtidone, Pc). Nel 2014 è entrata in cucina, dopo la laurea in Viticoltura ed Enologia e due anni di aggiornamento professionale presso l’Accademia di Niko Romito, in Abruzzo, seguito da uno stage di tre mesi al ristorante Reale di Castel di Sangro (Aq). «In quel corso – ricorda la chef – eravamo soltanto due ragazze. Non sono d’accordo con quanti sostengono che il nostro non sia una mestiere femminile. Per fortuna la cucina si sta evolvendo e si sta “ingentilendo”. Ho avuto la fortuna di lavorare in ambiente “sani”. Il più grande insegnamento che mi ha dato Romito è quello del rispetto: per gli ingredienti, per gli ospiti, per il team di lavoro. Quando sono rientrata al mio ristorante ho cercato di cambiare il rapporto con le persone della brigata: sono favorevole alle gerarchie, ma chi viene a lavorare da me non deve essere maltrattato, ma facilitato ad appassionarsi a questa attività». C’è differenza con la cucina di casa? «Non si può sbagliare, per far vivere ai clienti una esperienza particolare: e poi si deve essere imprenditori, cucinare forse è l’ultima cosa, anche se la più importante». Come fa a conciliare la famiglia con il suo lavoro? «Sono sposata con figli, ma per fortuna mio marito lavora con me, in cucina, è il mio sous-chef: ci siamo conosciuti fuori da ristorante, a una cena. Di solito purtroppo una donna deve rinunciare a tante cose, io ho il supporto di una grande famiglia».
Alle tre lady-chef abbiamo chiesto anche come sta andando la ripresa post-Covid19. Dice Caterina Ceraudo: «Noi abbiamo fatto delivery, per poter dare un po’ di lavoro ai ragazzi, ma è stata dura. Sono nati tanti progetti, con una nuova linea creata durante la pandemia: “Naturalmente”, con dei trasformati dal nostro orto e dalle nostre coltivazioni di frutta. La ripresa ora è lenta, vedremo dopo agosto che cosa succederà: avevamo gli stranieri, che ci mancano». Antonia Klugmann è ottimista: «La gente ha una gran voglia di uscire, di ritrovare la convivialità. Ogni ristorante ha una storia diversa, noi non abbiamo sofferto le chiusure, ora speriamo». Valeria Piccini: «L’estate è andata molto bene, speriamo non si debba tornare a nuove chiusure». È il timore di tutti, ma l’ottimismo della volontà ci fa dire che si potrà uscirne, finalmente.
[Da “Civiltà della Tavola”, n. 330, mensile dell’Accademia Italiana della Cucina]