di Gigi Padovani
Ho visto recentemente la trasposizione teatrale di “Così parlò Bellavista” del compianto Luciano De Crescenzo: a parte la considerazione che il testo (1984) è molto datato e che la versione andata in scena al Carignano di Torino mi pare assai meno brillante di quella cinematografica, mi ha colpito l’episodio finale, nella quale i due protagonisti, il napoletano e il milanese, trovano una ragione di convivenza e comprensione dei loro diversi stili di vita – tra gli “uomini d’amore”, i partenopei, e gli “uomini di libertà”, i meneghini – mangiando un panettone mentre rimangono chiusi in un ascensore. Che c’entra il lievitato nato commercialmente cento anni fa all’ombra della Madonnina in una sfida (stucchevole) cultural-antropologica tra Nord e Sud? Il panettone viene presentato nel testo di De Crescenzo come un dolce “nordico”, “lumbard”, estraneo alla tradizione partenopea natalizia, che invece si esprime negli struffoli e nel roccocò (deliziosi, specie se alle nocciole, come quelli del maestro pasticcere Pasquale Pesce di Avella).
[Nella foto sopra, panettone Di Stefano, foto di Alessandro Castagna]
La “scoperta” del panettone da parte del professor Gennaro Bellavista, bloccato in una cabina di ascensore con il dottor Cazzaniga, oggi in verità suona assai inverosimile: ormai il dolce nato a Milano dal pasticcere-industriale Angelo Motta nel 1919 – che creò uno stampo di carta paglia per inguainare l’impasto durante la lievitazione, facendolo diventare alto – è un patrimonio dell’Italia intera. Come il tiramisù, dal nord è sceso a conquistare anche il meridione, mentre spaghetti e pizza colonizzavano la cucina padana.
Fin qui il dato di costume. Dal punto di vista gastronomico e dell’immagine, negli ultimi dieci anni è cambiato anche il mondo del panettone, che da dolce tipicamente industriale è diventato artigianale. Non c’è chef, pasticcere, panettiere che non prepari la “sua” versione. Ci sono esempi golosi. Ma a volte si notano versioni con ingredienti, diciamo la verità, assai improbabili. E l’industria risponde colpo su colpo: nei supermercati ho visto – con costernazione – esposti il “Pandoro Cioko Panna”, il “Golosone” farcito con “caffè e crema al tiramisù”, persino un lievitato ripieno di “crema inglese”…
Con la “panettone mania” è esplosa anche la moda dei contest: da ottobre, fino a pochi giorni fa, non c’è stata città italiana risparmiata dalle rassegne dedicate al panettone, con tanto di entusiastici comunicati delle solerti addette stampa che ne esaltano i vincitori. A proposito: tra questi ricordo, a memoria, proprio Pasquale Pesce e Salvatore De Riso, guarda caso campani. De Crescenzo dovrebbe riscrivere la commedia.
E poi ci sono le interpretazioni nei piatti salati. Se qualche anno fa Dario Loison, da Costabissara, Vicenza, ha lanciato un libro con tante ricette dall’antipasto al dolce a base di panettone, quest’anno è un produttore siciliano, Di Stefano – da Raffadali, in provincia di Agrigento – ad aver aperto le danze , addirittura con un tour di “cene al panettone” in quattro tappe, con altrettanti chef: il 13 ottobre a Torino con Marcello Trentini di Magorabin (1 stella Michelin); il 20 ottobre a Milano con Marco Ambrosino del ristorante 28 posti; il 31 ottobre a Roma con Arcangelo Dandini dell’Arcangelo e il 16 novembre a Firenze con Maurizio Zanolla. Sono stato invitato all’apertura torinese, e ho degustato le creazioni di Trentini – insalata acida di pomodori con crostino di panettone, polentina di panettone con tonno di conliglio, cevice con parmigiano di panettone ecc – che ha presentato insieme con la chef ambassador della casa siciliana, Bianca Celano, impegnata in tutto il tour. Devo dire che il lievitato meneghino ha dimostrato tutta la sua versatilità, grazie all’abilità dei cuochi.
Da un articolo di Carlo Ottaviano su “Il Messaggero” di qualche giorno fa, ho scoperto che il panettone in Italia oggi vale 107 milioni di euro, ormai equamente divisi tra quello industriale (51%) e quello artigianale (49%). Tutto il comparto della produzione da forno vale ormai 5,5 miliardi di fatturato e nel derby tra panettone e pandoro anche le tonnellate tra i due lievitati si equivalgono. Il mondo cambia, persino in meglio, visto l’avanzare della produzione artigianale. Lasciatemi però ripetere quello che ho detto nella trasmissione con Bruno Gambacorta, qualche giorno fa, Tg2 Italia: a me il “famolo strano” nel panettone non piace affatto. Preferisco la tradizione, magari con qualche piccola variante da prodotti “del territorio”, come si dice oggi. E fatemi lanciare un appello, “mo che viene Natale”: basta gare, basta giurie, gustiamoci un panettone in famiglia in santa pace, con tanti auguri a tutti!