di Gigi Padovani
La tutela europea dei prodotti
L’Italia vanta 325 prodotti tutelati dai marchi europei Igp, Dop e Stg. Dietro queste sigle con i relativi marchi – che noi consumatori dovremmo saper riconoscere, per sapere che cosa mangiamo davvero – vi sono tre diverse modalità di produzione del cibo, considerato in rapporto al territorio: Indicazione Geografica Protetta (almeno una delle fasi di produzione deve avvenire in un’area geografica), Denominazione di Origine Protetta (si tratta di un alimento con caratteristiche esclusivamente di un territorio), Specialità Tradizionale Garantita (un cibo contraddistinto da una lavorazione unica e attuata da oltre vent’anni, ma non necessariamente in un solo territorio). Siamo al primo posto in Europa per questo tipo di tutela, seguiti dalla Francia con 270 specialità e dalla Spagna con 2015. A Bruxelles finora hanno messo il “timbro” a 1527 prodotti, per un valore calcolato dalle autorità comunitarie di oltre 22 miliardi di euro. I vini “protetti” dai due marchi europei invece sono 1620, e l’Italia primeggia anche in questa classifica, con 527 diverse produzioni enologiche, alle quali si aggiungono 35 “spiriti Ig” (vermouth di Torino, acquaviti ecc) su 246.
La trafila per ottenere l’ambito riconoscimento è piuttosto lunga, a volte richiede molti anni. I produttori interessati devono presentare domanda prima alla Regione, che la invierà al Ministero dell’Agricoltura, della Sovranità alimentare e delle Foreste (attuale dizione) e nella domanda dovrà indicare le caratteristiche “distintive” del prodotto, la sua origine storica nel territorio e un disciplinare di produzione che verrà certificato da uno degli enti autorizzati. Dopo il via libera di Roma, la pratica andrà a Bruxelles alla Commissione dell’Unione Europea che la esaminerà, valutando la conformità al regolamento 1151 del 2012, che vieta di registrare come Dop o Igp “i termini generici, i nomi che siano in conflitto con il nome di una varietà vegetale o animale e possano indurre in errore il consumatore quanto alla vera origine del prodotto”.
In genere quei marchietti rotondi, giallo e blu (Igp) o giallo e rosso (Dop) sulla confezione, sono un ottimo lasciapassare per le produzioni tipiche italiane, che trovano così più facilmente la strada dell’export e l’interesse dei consumatori. Dal 2015 a oggi, in base al monitoraggio della Fondazione Qualivita, sono stati autorizzati come Ig da Bruxelles ben 58 nuove specialità, con una media di cinque l’anno. Le ultime? La Ciliegia di Lari Igp (Toscana), le Sebadas di Sardegna Igp, il Cedro di Santa Maria del Cedro (Calabria) e persino un tipico piatto marchigiano, i Vincisgrassi alla Maceratese Stg, che si aggiungono così alle altre tre Specialità Tradizionali Garantite: la mozzarella, la pizza napoletana e l’amatriciana. Però non sempre il successo è quello sperato dai produttori, e la trafila burocratica è molto lunga. Il professor Alberto Grandi, docente associato all’Università di Parma, qualche anno fa ha pubblicato un libro assai polemico sul tema, dal titolo Denominazione di origine inventata, nel quale sostiene che le storie raccontate dai produttori per ottenere il riconoscimento sono “bugie del marketing”, “leggende inventate” per costruire uno storytelling e addirittura sostiene che la cucina italiana è frutto di un processo “in gran parte artificiale iniziato nel secondo dopoguerra”. Le tesi di Grandi sono state confutate da molte fonti, ma in effetti spesso il riconoscimento della Igp o della Dop è stato il frutto di compromessi al ribasso, quanto a ingredienti e metodi di produzione, tanto che molti artigiani di qualità si sono rifiutati di aderire al Consorzio di Tutela perché il disciplinare aveva allargato troppo le maglie, aprendo all’industria. È successo con la Piadina Romagnola Igp, con la ciliegia di Vignola Igp, con il Cioccolato di Modica Igp.
Su tutti i media nelle ultime settimane è esploso il caso del Gianduiotto di Torino Igp: come avevamo scritto nel novembre 2020 su Civiltà della Tavola, un gruppo di artigiani e industriali piemontesi fin dal 2017 stanno cercano di ottenere il riconoscimento europeo per l’iconico cioccolatino nato nella capitale sabauda a metà dell’Ottocento, grazie al primo matrimonio tra cacao e nocciole: la ricetta originale prevede l’aggiunta a quei due ingredienti soltanto dello zucchero e a quella si sono rifatti i produttori piemontesi nel disciplinare presentato in Regione Piemonte. Ma una multinazionale svizzera, che dal 1997 è proprietaria di una delle aziende storiche del gianduiotto, con uno stabilimento in Val Pellice, nel Torinese, si oppone a quel disciplinare perché detiene un “trade mark” che recita “Gianduia 1865- Il vero gianduiotto di Torino” e soprattutto produce un cioccolatino con un dieci per cento di latte in polvere.
Il Comitato promotore, presieduto dal cioccolatiere torinese Guido Castagna – noto al pubblico televisivo per le sue ricette presentate alla Prova del cuoco e in altre trasmissioni – non ne vuole sapere di aggiungere quell’altro ingrediente, ricordando che il cioccolato al latte è nato in Svizzera nel 1875, per opera dell’artigiano Daniel Peter (lo battezzò Gala Peter) grazie all’invenzione del latte in polvere da parte del farmacista Henri Nestlé. Finora la Regione Piemonte, tramite il suo presidente Alberto Cirio, e anche la Città di Torino, con il sindaco Stefano Lo Russo, hanno sostenuto la posizione del Comitato promotore, e che ha ottenuto di essere ascoltato anche dal ministro dell’Agricoltura, Francesco Lollobrigida, e dal commissionario europeo Janusz Wojcecjowski. Gli svizzeri negano però di volersi opporre al Gianduiotto di Torino Igp e si dicono pronti a trattare.
Si vedrà nel corso dell’anno prossimo, prima che scada l’attuale Commissione Europea presieduta da Ursula von der Leyen, se la pratica dei piemontesi andrà a buon fine, come sperano tutti: il giro d’affari del gianduiotto è intorno ai 200 milioni di euro e probabilmente potrebbe ancora crescere. Intanto a gennaio 2024 entrerà in vigore un nuovo testo unico europeo sulle produzioni di qualità. “Sono misure ambiziose – ci ha detto Paolo De Castro, già ministro dell’Agricoltura e relatore del provvedimento al Parlamento Europeo – che introducono un quadro giuridico unico e procedure di registrazione abbreviate e semplificate, aumenterà la protezione delle indicazioni geografiche vendute online, riconoscerà le pratiche sostenibili e darà più poteri alle associazioni di produttori”.
L’applicazione delle norme rimarrà di competenza degli Stati nazionali, ma probabilmente il futuro delle Igp e Dop sarà più certo e potrà difendere meglio il nostro patrimonio culturale e gastronomico locale. Le “guerre di religione” sugli ingredienti non servono a far crescere il Made in Italy, questo è certo. Vi sono esempi anche confortanti, di collaborazione tra piccole imprese e grandi multinazionali, come è avvenuto per il Vermouth di Torino Ig, che è stato richiesto in modo concorde ed ha ottenuto recentemente anche il via libera negli Stati Uniti.
Per quanto riguarda il gianduiotto, i consumatori potranno sempre scegliere tra quello “di Torino Igp”, con i tre soli ingredienti originari, e quello senza marchio, con l’aggiunta di latte, o persino di pistacchio, mandorle, cioccolato rosa. Ma a metà Ottocento quel primo cioccolatino incartato al mondo sicuramente aveva al suo interno soltanto tre ingredienti: cacao, nocciole e zucchero. E si continuerà a produrlo in quattro modalità: tagliato a mano, stampato, estruso oppure estruso e tagliato.
[Da Civiltà della Tavola – Rivista dell’Accademia Italiana della Cucina – dicembre 2023]