IL NOSTRO VIAGGIO
Ero già sveglia da un pezzo, ferma nel letto osservavo incuriosita un raggio di sole che, filtrando attraverso le persiane, trasformava il pulviscolo della stanza in paillettes scintillanti. Era domenica. Avevo sette anni. La notte avevo dormito poco, ero agitata per gli eventi che avrebbero scandito quella giornata particolare: la mia prima comunione.
La cerimonia era programmata da mesi. Prima le lezioni di catechismo due volte la settimana, impartite da un’arcigna e severa Suor Angela, che pretendeva mandassimo a memoria i testi della catechesi. Poi le prove in chiesa della cerimonia, che coinvolgeva bambine e bambini di prima elementare provenienti da tutte le parrocchie, trasformandola in una festa cittadina. Infine l’esame da parte del parroco.
Intanto in casa erano incominciati anche i preparativi: le camere erano state rassettate da cima a fondo, mamma aveva stirato tende, centrini e tovaglie ricamate, lucidato l’argenteria e lavato tutti i bicchieri della cristalleria. Da due giorni era arrivata anche la nonna per aiutarla a preparare “un pranzo come si deve” per i tanti parenti invitati.
Quando le campane della cattedrale iniziarono a suonare a festa, mi alzai sul letto e guardai il vestito appeso all’armadio, di tulle e raso bianco: era lungo fino ai piedi, da sposa. Certo mi dispiaceva metterlo soltanto per quel giorno, ma quello era il suo destino.
In realtà quel vestito non era mio, era di Giulia, la figlia di un collega di papà che aveva fatto la prima comunione l’anno precedente. Mi calzava perfettamente e quindi – a detta di tutti – perché comprarne uno nuovo? Sarebbero stati soldi sprecati. Naturalmente dovevo stare attenta a non sporcarlo.
Quando mamma entrò nella mia camera, era già pronta: indossava il vestito della domenica con la collana e gli orecchini di perle bianche. Mi aiutò a vestirmi, mi pettinò la frangetta e mentre mi sistemava sul capo il cerchietto di roselline bianche che cingeva il corto velo di tulle, vidi i suoi occhi lucidi: anche lei era emozionata.
Sul sagrato del duomo lasciai la sua mano e raggiunsi il gruppo dei comunicandi. Le suore del catechismo ci disposero in due file separate: da una parte i maschi – vestiti con giacca, cravatta e fazzoletto nel taschino – e dall’altra noi bambine, piccole spose. E così allineati percorremmo il corridoio centrale fino all’altare.
A me quella funzione sembrò eterna, per di più avevo un certo languore allo stomaco. Secondo il precetto, ero digiuna dalla sera precedente. Sinceramente quel “corpo di Cristo” che inghiottii con tanta devozione non bastò a placarmi la fame.
Quando tutto finì, le suore ci rimisero in fila e uscimmo sulla piazza inondata di sole. A questo punto ci fu annunciata una sorpresa. “Vi portiamo a fare colazione nel nostro refettorio, vedrete che vi piacerà”. La casa madre delle suore del catechismo era a pochi passi dalla cattedrale. Appena dentro, ci accompagnarono in una stanza disadorna con un grande crocefisso sullo sfondo e in mezzo un lungo tavolo rettangolare in legno massiccio, ricoperto con una candida tovaglia di lino lunga fino a terra.
Sul tavolo, ben distanziate tra di loro, erano collocate una trentina di scodelle di ceramica bianche con accanto, sulla destra, un piccolo cucchiaio e a sinistra un tovagliolo grande come un piccolo lenzuolo. Al centro c’erano dei cestini di pane affettato. Dopo pochi minuti entrò la madre superiora, reggendo per il manico una grande caffettiera con un lungo beccuccio. “Sarà caffelatte?” dissi alla mia vicina mentre l’aiutavo a stendere per bene il tovagliolo sul suo prezioso vestito.
No. Dal beccuccio usciva un liquido scuro che emanava un profumo intenso, che non avevo mai sentito. Nessuna di noi toccò le tazze. Neanche i maschi. La madre superiora, una volta riempite tutte le scodelle, cogliendo la nostra perplessità, con un sorriso esclamò: “È cioccolata! Cioccolata calda! Non l’avete mai mangiata? È buona, dolce, vi piacerà”.
Ai primi timidi cucchiai di assaggio, ne seguirono altri sempre più veloci, rumorosi, accompagnati da esclamazioni di piacere. E ci fu chi ne richiese una seconda tazza.
Non l’avevamo mai mangiata. Io ne rimasi conquistata. Era la mia prima cioccolata calda. E forse, la migliore dei miei ricordi.
Clara Vada Padovani