Quando ai primi del Settecento il filosofo Jean-Jacques Rousseau arrivò a Torino dalla natìa Ginevra, mandato dal padre a perfezionare la sua educazione, fu piacevolmente sorpreso nel trovarsi in una «grande città» e decise di soggiornarvi per alcuni anni lavorando come istitutore. Nelle Confessioni (il libro autobiografico pubblicato dopo la morte, nel 1782), Rousseau espresse in più passaggi la sua grande golosità per un cibo che gustò per la prima volta: «Avevo fame, faceva caldo: entrai da una venditrice di latticini; mi dettero la giuncata [formaggio fresco vaccino od ovocaprino, Ndr], e due grissini di quell’eccellente pane piemontese che mi piace più di ogni altro: con cinque o sei soldi feci uno dei più bei pranzi della mia vita».
Quei bastoncini di pane croccante fin dal Seicento sono una specialità piemontese e oggi i “grissini di Torino” si possono trovare sulle tavole di tutto il mondo. Spesso nei ristoranti gastronomici sono preparati dagli chef, in varianti gustose: alle spezie, integrali, alle olive.
In realtà gli storici grissini torinesi si distinguono in “stirati”, cittadini e più aristocratici, e “rubatà” (che in dialetto significa “arrotolato”), più corti e rustici, tipici della collina di Chieri (To). La parola grissia, italianizzata in griccia, era già presente nel Dictionnarie italian et françois di Antoine Oudin (1663). Il racconto popolare ne fissa però la nascita nel 1679, quando un fornaio di Lanzo, piccolo centro montano a pochi chilometri da Torino, tal Antonio Brunero, fu chiamato a palazzo dal medico di Corte, don Teobaldo Pecchio, affinché preparasse dei bastoncini di pane ben cotti e quindi più digeribili, destinati a Vittorio Amedeo II di Savoia. L’Infante divenne re all’età di nove anni, sotto la reggenza della madre Maria Giovanna Battista di Savoia-Nemours, ma era gracile, di salute precaria e aveva sempre mal di stomaco: non digeriva il pane di scarsa qualità con troppa mollica che gli veniva servito. Il bravo fornaio, invece, riuscì a preparare quei lunghi e sottili bastoncini di pan-grissino, croccanti e “bis-cotti”, facilmente assimilabili, che fecero guarire il sovrano sabaudo.
Gli storici però pensano che l’origine sia dovuta all’aumento del prezzo del frumento e alla conseguente “furbizia” dei panettieri che ridussero le forme del pane comune, dette ghërse, allungandone l’impasto. Probabilmente dalla ghërsa si passò ai bastoncini, battezzati ghërsin.
Di certo per secoli fu una specialità della tavola regale: re Carlo Felice (1765-1831) ne era molto ghiotto, tanto da sgranocchiare grissini senza alcun ritegno quando assisteva alle recite del Teatro Regio. E grande estimatore dei petits bâtons de Turin fu Napoleone Bonaparte, al quale probabilmente si deve la prima esportazione al di là delle Alpi.
Il “grissino stirato” nel 1986 divenne protagonista di una sagra svoltasi a Lanzo Torinese, durante la quale i Comuni di Torino, Chieri, Andezeno e la stessa Lanzo firmarono un protocollo d’intesa impegnandosi per la tutela e la valorizzazione di quella specialità; nel 1998 il “bastoncino friabile croccante denominato grissino o ghers(s)ìn (la sua forma originaria)” è stato inserito nella lista dei Prodotti Agroalimentari Tradizionali (Pat) dal ministero delle Politiche Agricole, su proposta della Regione Piemonte.
Oggi molti fornai torinesi sono tornati a difendere quella tradizione, con le produzioni artigianali di qualità che combattono le squallide bustine industriali, contenenti grissini ricchi di grassi e insapori. Uscire da una delle loro botteghe sotto i portici del centro con un pacchetto di grissini confezionato con cura e legato con un cordino rosso è uno dei piaceri della vita che si possono ancora godere a Torino, insieme con un buon Vermouth e un gianduiotto, i tre simboli gastronomici della città. In uno dei suoi mirabili reportage per la Rai, nel programma Alla ricerca dei cibi genuini. Viaggio nella valle del Po, Mario Soldati precisò (era il 1957): «Il grissino, pur essendo rifatto dappertutto in Italia e nel mondo, non può essere esportato, perché, anche soltanto a cinquanta chilometri da Torino, non è più lui».
Forse il rigore dello scrittore torinese oggi ci appare un po’ eccessivo, ma certo il destino dei bastoncini di pane è indissolubilmente legato al capoluogo piemontese, tanto che Emilio Salgari battezzò (forse con un po’ di malcelato disprezzo) “grissinopoli” la città dove arrivò agli inizi del Novecento, richiamato dall’editore Speirani che pubblicava i suoi libri di avventure. Lo storico Alberto Viriglio, nel suo libro Voci e cose del vecchio Piemonte (1917), giunse addirittura a proporre di inserire i grissini nello stemma comunale: «Se la riconoscenza fosse virtù cittadina, l’impresa araldica del Comune di Torino dovrebbe esser quella col toro portante il bicchierino, coronata di zolfanelli ed ornata di vermouth e grissino».
Ma forse la testimonianza più forte del legame dei torinesi con i grissini risale a metà dell’Ottocento, quando fu eretto un obelisco dedicato al ministro Giuseppe Siccardi in piazza Savoia di Torino. Il monumento fu costruito nel 1852-53 per onorare la nascita delle “leggi Siccardi”, che abolirono i privilegi del clero, compreso il foro ecclesiastico. I fondi per la sua costruzione furono raccolti con una sottoscrizione popolare lanciata dal quotidiano La Gazzetta del Popolo, alla quale aderirono anche oltre ottocento Comuni di Piemonte, Valle d’Aosta, Liguria, Savoia (oggi francese) e Sardegna. Inciso sul granito di Baveno della stele, alta ventuno metri, che ancora svetta nella piazza, c’è il motto “la legge è uguale per tutti” e sono elencati tutti i nomi delle città che ne sostennero l’erezione. Nelle fondamenta è celato uno “scrigno della memoria”. Contiene: due copie della Gazzetta del Popolo, due monete (un 5 centesimi del 1862 di Carlo Alberto e uno scudo da 5 lire del 1851 di Vittorio Emanuele II); una scatola con polvere da sparo a ricordo delle Guerre di Indipendenza; semi di frumento, di riso, di melone; «una piccola bottiglia contenente vino ordinario del paese», probabilmente Barbera; e infine un «altro pacco contenente quattro pezzi di pane grissino». Quel piccolo tesoro simbolico fu sotterrato con una cerimonia solenne, il 17 giugno 1852, da una serissima delegazione composta da una decina di persone, tra i quali i deputati Quaglia, Bottone e Borella.
Molti sono gli scrittori che li hanno citati nei loro romanzi, da Massimo D’Azeglio a Edmondo De Amicis (nel suo Cuore), da Grazia Deledda a Giovanni Arpino ne La suora giovane, fino ai fumetti della Walt Disney. Oggi il carattere filiforme di questo tipo di pane è entrato nella lingua italiana in senso figurato, per indicare una persona particolarmente magra: si dice «essere un grissino» o «magro come un grissino», e la parola divenne persino il soprannome di uno dei sindaci di Torino, Piero Fassino.
[articolo pubblicato su “Civiltà della Tavola”, mensile dell’Accademia Italiana della Cucina, di gennaio 2021]